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QT8, Quartiere sperimentale dell’ottava Triennale di Milano (5)

L’istruzione, i giochi e gli animali  

La Scuola Elementare (Arrighetti) 1954

La scuola elementare ai piedi del Monte Stella è una costruzione moderna, luminosa, con un corpo centrale che accoglie i servizi di direzione, segreteria e palestra. Collegate al centro, due strutture laterali con le classi, in cui ancora oggi si trovano arredi originali: le aule si aprono, con ampie vetrate scorrevoli, sul verde della Montagnetta, dove è possibile svolgere la didattica a cielo aperto.

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(foto 01) Il Padiglione delle mostre e il campo giochi

Il Padiglione per Mostre e il Campo Giochi (Bottoni) 1951

Il Padiglione è una piccola struttura a base circolare, progettata come sede per mostre, che ora accoglie una associazione di volontariato, impegnata nel sostegno alla maternità difficile. A fianco, l’edificio del centro sociale e biblioteca, che da tempo ospita la sede di una Onlus. Tra i due volumi architettonici, il campo giochi. All’ingresso una scultura, che lo stesso Bottoni scoprì, insieme ad altre statue destinate al Monte Stella, negli scantinati della Triennale.

É sorto al QT8 il primo campo di gioco per ragazzi di Milano, campo che fu, fra l’altro, il propulsore della iniziativa degli altri campi di gioco cittadini. (Bottoni)

Un lupo va a scuola

Gli animali abitavano il quartiere in tranquilla libertà. Gatti in ogni cortile e affacciati alle finestre, tra i vasi di fiori. Qualche gregge di pecore girava ancora per i campi e, talvolta, i cavalli da corsa dell’ippodromo facevano un percorso di lento passeggio tra le stradine del quartiere: eleganti, altissimi e bizzarri. Tutto si fermava, non si doveva fare rumore per non innervosire i meravigliosi animali.

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(foto 02) Ribot, il grande campione

Anche Ribot, il cavallo del secolo, era passato sulle piste di San Siro e si era sgranchito le possenti e prestigiose zampe proprio al QT8. Un randagio cucciolo di cane lupo lo aveva seguito scodinzolante e deciso, così risoluto che il grande campione lo aveva ospitato nel suo box, assieme alla sua fedele capretta. Conquistata la sedicesima vittoria, Ribot era ripartito in fretta e, mentre saliva sul van, aveva visto il caro lupetto perdersi travolto dalla folla. Ciao Ribot. Al giovane cane non restava che la via oltre il recinto della Federico Tesio.

Il cucciolo aveva girovagato per un po’, poi era tornato al quartiere, dove una famiglia l’aveva accolto con tanto amore. Ormai era Brenno, un bel pastore tedesco.

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(foto 02) Brenno, pastore da galoppo

Da quell’incontro straordinario con l’asso del galoppo, gli era rimasto nelle zampe il bisogno di correre veloce, velocissimo. Aspettava l’autobus sul viale e, dopo un lungo agguato, ben mimetizzato tra le fronde di un arbusto, si scatenava in un inseguimento liberatorio.

Ricordava anche di aver vissuto la compagnia, l’amicizia e un responsabile senso di appartenenza solidale, fraterno. Proprio per questo, anche se non c’erano i bambini nella sua casa, ogni mattina accompagnava i piccoli studenti del quartiere a scuola e tornava a riprenderli all’uscita. Non sbagliava mai l’orario. Al pomeriggio, al momento dello svago, andava fino al campo giochi, saliva sulla ripida scala della scivoletta e giù con i bimbi fino all’aiuola di sabbia.

Brenno aveva un grande amico, il salumiere Elio, un giovane uomo, a cui tutti erano affezionati. Gli scolari scrivevano di lui nei loro temi, ne parlavano come di un eroe del quartiere: era solo un uomo buono, simpatico e un grande lavoratore. Quando il cane andava al negozio, lo chiamava con due o tre bau. Elio usciva, gli toglieva la museruola e lo rifocillava con gustosi spuntini. Si salutavano e via, il lupo era ancora libero di correre veloce, velocissimo per i prati. Straordinario Brenno, pastore da galoppo.

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QT8, Quartiere sperimentale dell’ottava Triennale di Milano (4)

L’arte, il verde, la luce e il sole

 

L’urbanistica e l’architettura, al QT8, si armonizzano in un progetto di qualità ambientale: spazi verdi e luce attraversano ogni canone edilizio. Lo sguardo riconosce un tessuto vitale che accompagna lo sviluppo individuale e collettivo. Scultura e decorazione dialogano con l’architettura.

“Un largo viale percorre il quartiere nella sua lunghezza da est a ovest. Due traverse mediane si distaccano verso nord e verso sud. La rete stradale interna è costituita da vie a fondo cieco a servizio degli edifici. Si realizza il primo campo giochi per ragazzi di Milano, poi replicato in altri quartieri della città. I palazzi alti sono circondati da verde condominiale, le villette hanno giardini fioriti e ben curati”. (Bottoni)

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(alcuni esempi d’arte al QT8)

Il percorso del quartiere è arricchito da opere di grandi artisti: alcune copie di sculture trovate negli scantinati della Triennale, mosaici e ceramiche di Crippa, Dova, Soldati, Pomodoro, Piccoli, Bruiolo, Furini e Ranzi.La scultura all’aria aperta, entro le zone verdi e le decorazioni murali di ceramica a colori furono realizzate al QT8, esempio unico a Milano e in Italia di collaborazione sul piano urbanistico-edile fra artisti decoratori ed architetti”. (Bottoni)

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(Bottoni con Fernand Leger sulla cima del Monte Stella in costruzione)

Il Monte Stella (Bottoni) 1947

“Il monte Stella è una grande architettura”, sosteneva Aldo Rossi, “e come tutte le grandi architetture continua nel tempo ad aiutare gli esseri umani ad abitare il mondo”.

Sulla Montagnetta Bottoni aveva sistemato le statue in pietra gallina, trovate in Triennale, per portare l’arte tra la gente; chiamò il monte Stella come la moglie, la scultrice Stella Korczynska.

“La collina progettata, una soluzione del problema spaziale e panoramico dei quartieri di pianura, fa scuola nelle sistemazioni verdi di altre zone cittadine.” (Bottoni)

Sulla collinetta di Milano, negli anni, ha preso forma un parco urbano: gli alberi, il bel verde, i giochi allegri dei ragazzi, le corse degli sportivi e la vitalità della gente ne hanno fatto “un luogo in cui sognare”, come aveva immaginato Bottoni. Ai piedi della Montagnetta, la scuola elementare per accompagnare la crescita dei piccoli. A poca distanza, la chiesa dedicata a Maria Nascente a tutela di ogni spiritualità. Dal 2003, il Monte Stella custodisce una grande istituzione: il Giardino dei giusti di tutto il mondoOgni anno, con una cerimonia toccante, si dedica un cippo e si pianta un pruno fiorito per ricordare le personalità che hanno salvato vite umane da persecuzioni razziali, a rischio della propria vita.

Le rime di Alina

Al quartiere la comunicazione fluiva a meraviglia, le voci entravano e uscivano dalle case. Camminando nelle stradine si ascoltavano le note al pianoforte del futuro maestro, gli esercizi di canto della soprano, la voce tonante del padre di famiglia che, di ritorno dal lavoro prima di salire i tre piani di scale, gridava alla moglie “metti in tavola”. L’appuntamento con la giovane parrucchiera si prendeva dalla finestra “Rita, passo alle quattro”. Il pittore affacciato al balconcino schizzava nuovi ricordi sulla sua tela astratta. Anche i frutti dei giardini e degli orti erano scambi di simpatia: a primavera tante ciliegie per gli amici; albicocche e pomodori, caldi del sole d’estate, erano le buone merende dei bambini. La partecipazione non avveniva solo tra la strada e i piani bassi. Per i piani alti qualcuno si era attrezzato con grande ingegno. Mimmo e Renzo avevano costruito una teleferica improvvisata, ma tecnicamente perfetta, un argano che partiva dalla cima del palazzone e arrivava fino alla villetta oltre la via. Il collegamento più veloce per trasportare i loro segreti e la loro amicizia.

Alina ascoltava attenta il “gazzettino padano”, da quando il padre le aveva parlato di quel giornalista-poeta che diceva tutto in rima. Un suo libro insegnava la chimica in versi, impossibile dimenticare quelle formule. Idrogeno: “è un gas insipido, senza colore, di peso minimo, buon conduttore. Anche, volendolo, si liquefà, ma con grandissima difficoltà”.

Così, la fantasiosa bambina aveva deciso di parlare anche lei, almeno per un giorno, in rima: “ con i compiti già fatti, oggi gioco con i gatti”, “ una brocca di thè fresco, da gustare sotto il pesco“, “ tante fragole e un cestino che regalo a quel bambino”.

In effetti, il bel cesto di paglia pieno di fragole era proprio per Mimmo, che, contento e dispettoso, le aveva risposto: “con sta storia della rima, sembri scema più di prima”. Una ghiotta occasione per condividere con il suo amico risate al gusto di fragola. Una corsa a casa, azione e via: il canestro scivolava giù, giù, giù, fino a quando, poco prima dell’arrivo, si era rovesciato tutto sulla testa della cara signora Paoli. Fine della teleferica, ma la circolarità della comunicazione non si era interrotta.

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(caro amico del QT8, lo scultore Alik Cavaliere, figlio di Alberto, rataplan, rataplan, rataplan)

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QT8, Quartiere sperimentale dell’ottava Triennale di Milano (3)

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La piazza, la chiesa e il mercato.

 Un quartiere realizza la sua identità, si assicura la certezza di una struttura sociale, quando le presenze individuali possono comunicare, consapevolmente, tra di loro. Gli scambi, di idee e di cose, suggeriti nel dinamismo di una piazza, si innalzano nel luogo di culto e si incrociano orizzontalmente nel movimento instancabile del mercato.

La Chiesa dedicata a Maria Nascente (Magistretti, Tedeschi; 1947) è un esempio architettonico importante. “La pianta circolare del progetto sottolinea una visione sperimentale per la sua planimetria, la volumetria e persino, si dice, per l’interpretazione della liturgia” (Bottoni). Struttura in cemento armato, d’avanguardia per l’epoca, sostenuta solo dai muri e dai pilastri perimetrali. Mattoni a vista, ispirati alla tradizione delle chiese lombarde. Un portico e il battistero, sempre di forma circolare. Il matroneo è circondato da un muro di mattoni a nido d’ape, elemento ricorrente nell’architettura del quartiere.

Il Mercato è stato progettato nel 1961. All’inizio, i servizi commerciali si limitavano solo a una schiera di negozi. I Negozi (Bottoni, 1951). Corpo unico per sette esercizi indipendenti; al piano superiore le abitazioni dei negozianti. Sul retro un accesso comune e mosaici sui grandi parapetti dei balconi, con colori diversi per ogni sezione.

La piazza non è mai stata realizzata. La vita comune perdeva i suoi spazi sociali.

Palazzo Ina-casa a 11 piani (Lingeri, Zuccoli) 1951

Undici piani di appartamenti a riscatto, esposti al sole su un grande prato. Scale esterne collegate alle abitazioni da ballatoi, sfalsati a tutela della vita privata. Nel palazzo erano in mostra, nei giorni della Triennale, esempi di arredamento: il design di grandi architetti aggiungeva valore agli appartamenti, dotati anche di luminosi soggiorni passanti. Nell’atrio mosaici di Roberto Crippa, Gianni Dova e Atanasio Soldati.

Nino e la guerra

La vita era scandita dai desideri, dai sogni dei padri e delle madri, dalla voglia di realizzare presto il disegno del futuro. L’intenzione collettiva, in mancanza di molte strutture, modellava la realtà sociale recuperando i suoi spazi istintivamente.

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Il palazzone era il cuore pulsante del quartiere: disincantato, tumultuoso, irriverente. Meravigliosa megattera bianca adagiata al centro della vita, ingiallita nel tempo, come le pagine di un libro. Questo agglomerato di oggettività aveva anche un’anima scanzonata e musicale, profumata di giovinezza. Certi suoi ragazzi, dal sorriso beffardo, erano già vivaci musicisti, tanto che da grandi sarebbero diventati importanti professionisti. Proprio loro, con allegria, avevano scritto l’inno del palazzone, che ogni domenica mattina risuonava nell’atrio. La musica si ripeteva per ore, finché la voce tonante di un padre fermava la scena con un “bastaaa” indiscutibile. Le note sono ancora lì, in quell’atrio, per chi le sa ascoltare.

Verso l’estate, tra i giardini colorati di fiori e la dolcezza dei primi frutti sui rami, ogni anno scoppiava la guerra villette-palazzone. Non si è mai saputo per quale motivo, non esistevano differenze di classe tra le villette e il palazzone. Ma la guerra veniva dichiarata comunque: le mamme e i più piccoli si ritiravano in casa con le tapparelle abbassate. Fionde, fatte con forcelle di rami e avanzi di copertoni di biciclette, sassi e cerbottane uscivano dall’inaccessibile fortino tra i rovi. Per ore la battaglia non si fermava, qualche vetro andava in pezzi. Grida di guerra e inseguimenti. Si facevano prigionieri.

Nino era un grande sognatore, un timido fanciullo che stava nelle retrovie e seguiva i più grandi perché gli svelavano i segreti della vita. Leggeva molto e fischiettava come un usignolo. Una zia gli aveva insegnato, tra tante canzoni, “O Venezia”. “Sai Nino, quasi sicuramente, la musica è del maestro Giuseppe Verdi; vedrai, conoscere il valore del canto popolare ti aiuterà nella vita”.

Nino era stato fatto prigioniero e legato alla grande quercia. Gli avevano intimato di non parlare, assolutamente. Doveva restare lì, in silenzio. Era una prova per crescere. La mamma lo aveva cercato fino al buio della sera, gridando il suo nome. Lui zitto. Poi, in un prato pieno di lucciole, la giovane donna aveva riconosciuto il fischiettare gentile del suo Nino. Lo aveva slegato e portato a casa.

 O Venezia che sei la più bella

e tu di Mantova che sei la più forte

gira l’acqua intorno alle porte

sarà difficile poterti pigliar.

 

O Venezia, ti vuoi maritare?

E per marito ti daremo Ancona

e per dote le chiavi di Roma

e per anello le onde del mar”

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QT8, Quartiere sperimentale dell’ottava Triennale di Milano (2)

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“Le tipologie architettoniche, i metodi costruttivi, le soluzioni d’arredo e una nuova felicità della vita per i suoi abitanti”. … Il progetto originale risulta incompiuto:si sente l’assenza della Casa collettiva, la Casa Giardino e la Casa a piccoli alloggi, che Gio Ponti voleva destinare “agli artisti e particolarmente agli studenti di architettura”. (scritti della Triennale) … La solidarietà corporativa degli interessi è prevalsa sulla solidarietà nazionale. (Piero Bottoni)

Il piano edilizio del QT8 prevedeva un sistema urbanistico in cui la vita umana era organizzata in modo completo e costruttivo:“l’abitare”, pur rispettando libertà e tipicità individuali, partiva dall’intimità della casa per aprirsi alla comunicazione tra individui, famiglie e società. Il profilo tecnico di un quartiere plasmava una forma sociale, fatta di intelletto, emozioni e sentimenti; scandita dal lavoro, dal riposo, dalla creatività e dalla contemplazione. Al QT8 erano presenti le condizioni urbanistiche ideali per l’architettura moderna e, per qualche caso, si sono realizzate opere di estremo interesse: i nuclei abitativi erano strettamente collegati a numerosi servizi: scuole, asili nido, edifici sanitari, commerciali, di culto e di svago, campi gioco, parchi e orti e giardini. Le abitazioni avevano tipologie diverse: isolate, binate, a quattro piani e due palazzi alti 30 metri”. “Il quartiere ha mantenuto una qualità ambientale in cui luce e spazi verdi entrano armonicamente a far parte dei diversi modelli edilizi, in un paesaggio di vivibilità individuale e collettiva. Scultura e decorazione si integrano alla residenza urbana”.

I primi edifici, fedeli alla dimensione architettonica sperimentale, sorgevano per assegnare un’abitazione ai reduci e ai senzatetto. Tornavano a casa le persone: padri, madri, fratelli, cittadini, accolti con umanità, rispetto e pace.

Il Villaggio della Madre e del Fanciullo, http://www.villaggiodellamadre.org, è una storica organizzazione, di grande valore sociale nell’ambito materno-infantile.

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Elda Scarzella Mazzocchi, un nome da ricordare sempre, aveva fondato il Villaggio per tutelare i diritti e la dignità della maternità e dell’infanzia. Con i primi interventi di solidarietà, alla fine della guerra, furono ricevute le madri di ritorno dai campi di concentramento con i loro bimbi. Subito dopo, si sviluppò il lavoro di cura e di assistenza alle madri nubili, troppo spesso respinte dalla società e rifiutate dalla propria famiglia. In tempi in cui i pregiudizi permettevano simili, ignoranti ingiustizie, Elda Scarzella ha dato centralità alla donna, alla madre: un significato sociale alla maternità.

La bella architettura, perfettamente inserita nel verde, decorata con quinte traforate di mattoni, a discreta protezione alla riservatezza dell’ambiente, è opera degli architetti Mella e Scarzella (figlio della fondatrice),1956-57. Sculture e rilievi in ceramica di Arnaldo Pomodoro e Bobo Piccoli.

L’ingresso alla mostra dell’ottava Triennale di Milano era sulla via dell’Ippodromo: una struttura triangolare, sorretta da tre pilastri, decorata con mosaici. Di fianco, un alto pannello sventolante tra due pali, con grafica di Albe Steiner e Max Huber. In un grande prato, a fianco della biglietteria, si potevano visitare alcuni prototipi di architettura straniera (Belgio e Finlandia), completamente arredati, di una modernità così avanzata che è facile ritrovarne ampie citazioni tra le avanguardie del design di oggi.

Il leone e l’asinello.

Intanto il tempo si arrotolava su stesso, come un topolino sulla ruota della sua gabbietta, e si divorava il presente. Tra alcune realizzazioni riuscite e l’indifferente mancanza di strutture essenziali, la crescita sociale era lasciata alla spontaneità del collettivo.

In quel campo d’erba e di terra battuta, si svolgeva molta parte della vita dei piccoli e dei ragazzi. C’era tutto quello che si poteva desiderare: lo spazio di un campo di calcio, organizzato primitivamente, un grande platano da scalare, il “fortino” tra i rovi, accessibile solo ai più grandicelli e grintosi. Femmine escluse. Un anno, su quell’angolo di terra, era passato anche il circo. La sera prima era stato annunciato e i bambini erano esaltati dalla gioia: “ci sarà il leone!”. Una piccola creativa era corsa a casa e, con i caran d’ache più gialli e ambrati, aveva disegnato un magnifico, fiero, leone. “Sarà proprio così, chissà come si chiama?”. Poi, si era addormentata. Al risveglio il leone altri non era che un timido e assonnato asinello grigio, con una cestina di caramelle sulla schiena. I palchi del circo si limitavano a un piccolo mezzo giro di sedute e, nell’arena, un impacciato clown raccontava una storia che, comunque, aveva fatto ridere tutti.

… continua

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QT8, Quartiere sperimentale dell’ottava Triennale di Milano (1)

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“Il QT8 è stato un atto progettuale pionieristico e coraggioso, un esempio di innovazione appoggiato dall’intelligenza di una teoria urbanistica d’avanguardia”.

La Triennale di Milano nel 1947, in occasione della sua ottava edizione, ha dato vita a un evento completamente innovativo, rispetto alle edizioni precedenti: un progetto che, superando il limite della semplice esposizione temporanea di prototipi abitativi, entrava direttamente nel tessuto sociale.

Il QT8, “quartiere sperimentale pilota”, è nato dall’esigenza di una ricostruzione edilizia postbellica: la sua architettura formava lo spazio della libertà collettiva riconquistata e di una libertà personale in cui esprimere la propria individualità. Urbanistica e architettura dialogavano con il sociale e il sociale con il privato.

L’arch. Piero Bottoni, nominato commissario straordinario della Triennale, già dal 1945 aveva avviato un Centro Studi, raggruppando in commissioni un corpo di quasi cento tra i migliori architetti e ingegneri, pittori e tecnici di ogni ramo.

Il progetto originale dedicava una grande attenzione alla vita pubblica, alla comunicazione, al’organizzazione di una nuova struttura sociale. Negli anni del dopoguerra il sapere collettivo era fortemente sentito: i drammatici eventi, appena avvenuti, portavano le capacità dei singoli verso una partecipazione unitaria, una solidarietà in grado di annullare lo svantaggio di molti. Nel centro vitale del quartiere, in prossimità della chiesa, il piano di lavoro prevedeva almeno una piazza circondata da portici, il centro sociale, la scuola, gli asili, il club dei ragazzi, gruppi di negozi, il mercato comunale, un teatro, la banca, la posta, i centri sportivi, insomma le parti indispensabili di un tessuto sociale completo. Molto, troppo non è stato realizzato e il progetto aspetta ancora.

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 Piccola città del futuro, precipitata nel passato senza un presente.

Le case erano luminose, di fresco intonaco, quasi tutte bianchissime, tanto da ricordare soltanto un cielo azzurro a definirne i contorni. Le bambine passeggiavano per mano balzellando e cantavano, poi si fermavano e saltavano la corda. I maschi correvano fischiettando nei prati, pieni d’erba e di ortiche, a giocare a pallone. La struttura incompiuta della società lasciava spazio solo a gesti individuali, ai sogni, ai suoni del quotidiano, alla ritmica filastrocca delle bimbe che giocavano a campana sulla strada, con un piccolo sasso e un gessetto, alla voce delle mamme che chiamavano i figli per andare a tavola. Loro lasciavano le bici giù in terra e correvano a casa.

Da una parte all’altra del quartiere tutto era nuovo, libero da sovrastrutture, era come l’infanzia. Il primo confine partiva dall’Ippodromo, verdissimo campo, al cui centro cresceva il grano, più alto delle teste dei bambini. D’estate, qualche piccolo, spavaldo esploratore superava l’alto muro di cinta e si sdraiava lì, per ore, a guardare il cielo e creare realtà fantastiche in mezzo alle spighe, i papaveri e i fiordalisi. Esistono ancora i fiordalisi? Su quelle piste, tra il calpestio veloce del galoppo di nervosi cavalli, si mormoravano ricordi dei passi lontani di Hemingway, entrato alla fine la grande guerra nel quartiere che sorgerà, dopo un’altra guerra, per una libertà sociale, costruttiva e moderna.

“(…) Noi quattro andammo a San Siro in una carrozza scoperta. Era una bella giornata e attraversammo il Parco e seguimmo il tranvai e poi fuori dalla città dove la strada era polverosa. C’erano ville con le cancellate di ferro e grandi giardini traboccanti di vegetazione, e fossi con l’acqua corrente e orti verdi con la polvere sulle foglie. Attraverso la pianura si vedevano le fattorie e le fertili tenute verdi coi loro canali di irrigazione e le montagne a nord. Molte carrozze entravano nell’ippodromo e gli inservienti al cancello ci lasciarono entrare senza biglietto perché eravamo in uniforme. Scendemmo dalla carrozza; comprammo i programmi e attraversammo a piedi il prato e poi la soffice pista del percorso verso il recinto del peso. Le tribune del pesage erano antiche e fatte di legno e i totalizzatori erano sotto le tribune e allineati vicino agli stalli. C’era una folla di soldati lungo lo steccato del prato. Il pesage era pieno di gente e facevano passeggiare i cavalli in cerchio sotto gli alberi dietro alla tribuna centrale. (…) Salimmo sulla tribuna centrale a guardare la corsa. (…) Allora non c’erano i nastri a San Siro e il commissario allineò tutti i cavalli, parevano piccolissimi giù nella pista, e poi diede il via con uno schiocco della lunga frusta. (…)” (Da “Addio alle armi” di Ernest Hemingway, traduzione italiana di Fernanda Pivano, Milano, Mondadori).

continua …

 

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