Archivio dell'autore: Mirna

L’asado uruguayo

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Ciao, vorrei parlarvi dell’unico vero piatto della cucina uruguayana: l’asado. Noi non abbiamo piatti tipici indigeni perché le popolazioni locali sono state sterminate dai conquistadores spagnoli, come è successo in Argentina. La differenza è che loro, uno stato ben più grande del nostro, si appropriano anche delle nostre eccellenze, così hanno fatto con Carlos Gardel che è uruguayo di nascita. L’asado per noi è come la pasta per gli italiani, anche se dicono che gli spaghetti siano stati inventati dai cinesi: viaggiatori nel mondo hanno portato dalle Americhe le patate, cibo assenziale per gran parte dell’Europa del nord e i pomodori, alla base della dieta mediterranea.

 

La storia della carne invece nasce in Europa, dalla Spagna infatti nel 1611 vengono esportate in Uruguay un centinaio di mucche e qualche toro, e vengono allevate nelle sterminate pianure d’erba del nostro paese. Nel 1726 fu fondata la capitale Montevideo, da allora, arrivarono molti europei, uomini singoli in cerca di fortuna che viaggiavano a cavallo – i gauchos – e quando avevano fame, ammazzavano una mucca, accendevano il fuoco e facevano una croce con i rami per tenere la carne lontano dalle fiamme e non farla bruciare. Davano i loro avanzi ai cani che li seguivano fedeli, amici inseparabili. Così nacque l’asado, il nostro piatto tradizionale, immancabile nelle nostre case la domenica insieme alle verdure, alle salsicce e al formaggio. La preparazione è considerata una vera arte, non tutti riescono a cuocere un buon asado. Intanto noi tagliamo la carne in modo diverso, praticamente si tagliano le coste di traverso in strisce sottili. Per ottenere un ottimo risultato si deve sempre vigilare, quando dalla carne comincia a uscire il sangue vuol dire che è pronta, si gira dall’altro lato e si procede in modo identico. Se piace ben cotta la si lascia un po’ più a lungo. Molto importante è verificare che il fuoco sia sempre vivo e la brace uniforme.

 

L’origine della parrilla (griglia) è invece più curiosa. Narrano che nel 1832, in occasione di un’amnistia, vennero liberati molti carcerati che, essendo lontani dalle loro case, per potersi sfamare, decisero di rubare alcune mucche, e invece dei rami, pensarono di divellere le sbarre delle celle e usarle per tenere lontano la carne dalle fiamme. Poi la parrilla si è piano piano perfezionata, ora si trovano quelle dove accendi il fuoco da una parte e dall’altra metti la carne. Per ottenere un buon asado la carne deve avere un po’ di grasso e l’osso. Si accompagna in genere con un’insalata di lattuga, cipolle rosse e pomodoro e con la salsa “cimiciurri” fatta con aglio tagliato a pezzettini piccolissimi, prezzemolo, origano sale e aceto e un goccio di acqua tiepida, è una salsa che si può conservare in un barattolo con coperchio. Non può mancare un buon bicchiere di vino rosso, anche questo importato dall’Europa, dagli emigranti italiani e spagnoli. La carne deve essere tassativamente uruguaya, anche se tutto il mondo crede che la migliore sia la carne argentina, non è vero perché, secondo noi, contiene ormoni e alimenti non naturali.

 

Se dopo aver letto questa ricetta, vi è venuta voglia di assaggiare un vero asado, andate a Milano in Piazza Stuparich troverete un chiosco dove lo cucinano alla perfezione.

 

E dopo la carne dovete assolutamente assaggiare dei dolci del mio paese: alfajore al dolce di latte e la torta di pane, queste ricette a una prossima puntata.

 

Un grande battitore per una piccola asta

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Ciao a tutti i lettori del nostro giornale «Oltre gli Occhi». Il giorno 7 ottobre 2014, nella Galleria Jannone, abbiamo organizzato “L’asta del bianco”, anche l’aperitivo era bianco: crema di pollo, panna cotta e un eccellente spumante. Il cibo era stato preparato dalla Libera Scuola di Cucina ed è stato molto apprezzato anche da intenditori come Italo, proprietario di un noto ristorante milanese “La Libera”, parola che, detta da noi che siamo in carcere, sembra uno scherzo, ma che, un giorno, diremo anche noi: “Sono libera”. Il ricavato dell’asta è stato sufficiente a coprire le spese di stampa del terzo numero del giornale.

I manufatti da mandare in asta li abbiamo creati nel mese di agosto grazie alla sartoria Alice; Nadia, Mariangela, Violeta ed io abbiamo avuto la possibilità di realizzare cose diverse: borse, cinture, sciarpe, Cristina e Sabrina hanno fatto all’uncinetto e ai ferri collane, orecchini e perfino una coperta per neonato, mentre Dana e altre ragazze che frequentano il corso di origami hanno inventato libri, quadri e oggetti vari.

La vera sorpresa però è stata il battitore: Philippe Daverio, il noto storico dell’arte, che, con il grande spirito che lo contraddistingue, ha accettato di battere i nostri prodotti, trasformando con la sua eloquenza oggetti carini in manufatti unici, di grande pregio, facendo levitare i prezzi tanto che perfino noi a un certo punto dicevamo: basta, basta!

 

Renata fungeva da sua aiutante, non parlava, ma la sua espressione diceva tutto, ogni tanto Philippe le diceva: “Rispondi al telefono, mi pare che ci sia un’offerta”, era ovviamente una finta, comunque cara la mia Renata, come aiutante sei una frana anche se, come dici tu, non si può essere bravi in tutto. Sono sicura però che ti sei divertita un sacco, come tutte noi, modelle improvvisate, non proprio delle Belén Rodriguez, anche se ci unisce la provenienza di molte di noi: il Sud America, pazienza vi dovete accontentare con quello che passa San Vittore. Nadia, si pavoneggiava indossando una cintura di perle, non perle di fiume, ma di Naviglio, allacciata intorno alla sua vita, non proprio da vespa a conferma che talvolta one size fits all. E non parliamo della fatica ad allacciare un bellissimo girocollo in macramé, “un pezzo unico” così ha detto Philippe, intorno al collo di Violeta, che, se non si fosse venduto rapidamente, avrebbe finito per strozzarla.

Mariangela ha presentato una borsa tessuta al telaio all’interno della Sartoria con disegni simili a quelli di Fendi, ma di qualità superiore; è così simpatica la nostra Nonna Papera, così la chiamiamo qui, perché è carina come una paperina, solo un po’ più in carne, è soprattutto capace di stare allo scherzo. Io personalmente la chiamo Papera dei Paperoni perché è molto generosa.

E finalmente arriviamo al pezzo da novanta: una blusa di chiffon fatta a pipistrello, è il mio turno e Renata mi chiama ad indossarla. Dopo alcuni sfortunati tentativi – mi entrava solo una manica – chiamo Loredana, che ha una bellissima silhouette, l’ha indossata e ha sfilato con grande successo. Fra tutte le cose che abbiamo realizzato, io ho potuto indossare solo i cappellini.

Ogni volta che Daverio batteva qualcosa, sentivo una voce da dietro di me che offriva sempre venti euro. Finita l’asta, mi giro e vedo Antonella, la maestra che tiene il corso d’arte, le chiedo: “Come mai sempre venti euro?” “Perché è quello che mi posso permettere e non volevo fare brutte figure, se non altro ho provveduto a alzare i prezzi.”

Quante risate ci siamo fatte, abbiamo passato un pomeriggio stupendo! Devo ringraziare Antonia Jannone per averci dato la possibilità di tenere l’asta nella sua bellissima galleria, Philippe Daverio, davvero un grande e Renata che “una ne pensa, cento ne fa” per stimolarci e aiutarci nel nostro percorso, ma soprattutto voglio ringraziare tutte quelle persone che hanno partecipato e comprato qualcosa per darci la possibilità di far sentire la nostra voce fuori dalle mura di San Vittore tramite «Oltre gli Occhi».

Arrivederci a primavera quando terremo, come ha detto Philippe, le Salon de Printemps

Una domenica come tante altre

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Dalia Violeta, equadoriana, Chanel, dominicana, Nadia peruviana e io uruguayana. Oggi, domenica mattina, ci troviamo tutte e quattro all’aria della sezione penale e approfittiamo per fare colazione senza fretta, senza orari, Chanel non è iscritta al corso di giornalismo, ma è parte della nostra quotidianità, perciò questo articolo lo abbiamo pensato insieme.

Chanel è un tipo solare e già dalla mattina presto ci fa ridere, lei con il suo accento e il suo dialetto molto personale. Nadia è molto simpatica, ma ultimamente è un po’ triste, ritiene di essere l’unica ad avere problemi, e qualche volta ci viene voglia di ammazzarla, però sa anche farsi voler bene. Dalia (Violeta come si firma sul giornale) è una donna molto riservata, chiusa, con lei si può parlare di tutto e quello che più mi piace di lei è la calma e la pazienza che ha nei confronti delle altre persone, così diversa da me che sono così schietta da rasentare l’impertinenza. Non ho mai problemi a dire in faccia quello che penso, non so se è un pregio o un difetto, visto che alla gente per lo più non piace sentirsi dire la verità.

Non siamo un vero e proprio gruppo, diciamo che le circostanze ci hanno portato a stare con le persone che più ci somigliano. Con Dalia parliamo dei suoi studi, io la ammiro perché qui è molto difficile studiare, non sappiamo cosa sia la privacy, che pure è necessaria se ti vuoi concentrare. Non crediate che lei sia sempre bellissima e bravissima, di sicuro è la più calma fra tutte noi. Chanel, invece, è un vero terremoto, o, come dice lei, una tigre. Un giorno ci ha raccontato che il dottore l’ha chiamata per avvisarla che il giorno seguente sarebbe dovuta andare in ospedale a fare la “gastronomia” (gastroscopia), oppure che, non potendo dormire chiamava l’infermiera per farsi dare 20 gocce di “osama” (xanax) e noi giù a ridere, poi arriva Dana che le aveva promesso di tagliarle i capelli come le ha insegnato la parrucchiera Dina: il taglio della salute, che consiste nel togliere le doppie punte e richiede un sacco di tempo.  Dopo un po’ Dana deve assentarsi per andare a consegnare il vitto e le dice di aspettarla dieci minuti, di non muoversi, perché non ha finito. “Chanel, dove sei andata?” “Sono sempre qui, non mi sono “morsa” per niente.” A furia di ridere rischiavamo di farci la pipì addosso.

Mi chiama tira piedra (butta sassi) perché così viene chiamato nel suo paese un bambino tremendo. Chanel però è grande, sempre disposta ad aiutare le persone che hanno bisogno, è molto attiva e si fa volere bene da tutte. Nadia è una grande bambina non cresciuta. Ci racconta molte cose della sua vita, di sua nonna, che tutti i giorni combina qualche guaio, della sua mamma adorata, dei suoi fratelli e di sua zia che le sta sempre vicino. Ha incominciato un percorso lavorativo nella sartoria e sta andando proprio bene, brava Nadia, continua così che ti servirà per il tuo futuro. Sto conoscendo Dalia giorno dopo giorno, e mi rendo conto che sei una ragazza molto sensibile e di volerti bene.

Questo è lo scopo di questo articolo, care Chanel, Dalia, Nadia, quello che non riesco a dirvi con le parole, lo voglio dire con la mia penna.

Poco “smart” per la Smart?

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Ciao, sono Mirna, qui in malattia, per questo ho abbastanza tempo per scrivere. Quelli che mi hanno letto sanno che dovevo fare un piccolo intervento, come vedete, tutto è andato bene, dato che sono qui a raccontarlo. Come tutto nella vita, anche le cose semplici si possono complicare, questa volta no, ma, vi assicuro che ho avuto una grande fifa.

Voglio raccontarvi come è andata quella mattina che dovevo andare in ospedale. Alle sei e mezza sono seduta su una panchina di Piazza Filangieri ad aspettare Luisa, la Presidente della Cooperativa Alice, dove lavoro all’esterno di San Vittore in articolo 21, e dove godo anche di permessi premio. E quella mattina Luisa mi doveva accompagnare in ospedale, dopo poco meno di dieci minuti arriva al volante di una smart, io ero carica di un borsone che conteneva più o meno tutto quello che mi doveva servire a passare una settimana in ospedale. Primo intoppo: non riusciamo ad aprire il bagagliaio, per non perdere tempo, rinunciamo e buttiamo il borsone dietro il sedile. Prima di andare in ospedale dovevamo passare dalla cooperativa dove Luisa doveva ritirare qualcosa. Ci fermiamo, tentiamo di togliere la chiave, niente, non esce. Cosa fare? Solo dopo numerosi tentativi abbiamo capito che dovevamo togliere la marcia. Bene, andiamo rapidamente in cooperativa e in fretta torniamo all’automobile; la fretta non è la migliore consigliera, la marcia indietro non entra e noi? Scendiamo e, a mano, spostiamo la macchina fino ad arrivare a uno spazio sufficiente a farci ripartire a marcia in avanti, meno male che era una smart, altrimenti…

Il risultato di tutto questo è stato che ridevamo come due matte, la giornata era cominciata bene e mi aveva fatto dimenticare che non avevo fatto colazione, mi ero alzata prima dell’alba, andavo in ospedale senza la mia famiglia, insomma la tensione si era un po’ allentata.

Alla fine arriviamo a destinazione, parcheggiamo nel posteggio e, quando chiudiamo le porte, clic, ecco che si apre il bagagliaio; ci avviamo continuando a ridere e io le dico che se qualcuno ci avesse seguito durante il percorso avrebbe potuto pensare che fossimo parenti dei Flintstones, tanto eravamo goffe. Invece Luisa aveva affittato la smart per accompagnarmi e starmi vicina, in effetti la macchina non la conosceva. Grazie Luisa.

Adesso sono tornata, mi sto rimettendo in forma e ho ripreso il lavoro, cosa molto importante in carcere per poter guadagnare e comprare le cose che mi servono, non solo, anche per passare il tempo a fare qualcosa che mi piace tanto.

A presto.

Legalizzazione cannabis: quante fobie

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Ogni volta che si riapre il discorso sulla legalizzazione delle droghe leggere riemrgono tante paure e tanti tabù. Sarebbe meglio consentirle, tassandole, come il tabacco o l’alcol, liberando così i consumatori dal mercato dell’illegalità?

Tanti pensano che la marijuana sia l’anticamera delle droghe pesanti, altri credono che abbia effetti terapeutici, come in tante parti d’Italia, in Veneto, nelle Marche, in Liguria, Toscana ecc. Viene usata in ambito ospedaliero per gli spasmi della sclerosi multipla, alleggerisce i postumi della chemioterapia, contro il glaucoma, stimola l’appetito nei malati di AIDS, allevia i dolori dei malati oncologici, sono comunque pochissimi i medici che la prescrivono, dato che i farmaci che la contengono sono trattati come stupefacenti.

In Puglia, come si legge sul «Fatto Quotidiano», due ragazzi italiani, malati di sclerosi multipla hanno fondato il primo Cannabis Social Club, grazie alla loro Associazione “LapianTiamo”, lottando per far approvare la cannabis per uso terapeutico, che a loro viene data gratuitamente dal Servizio Sanitario Regionale e gli ha consentito di migliorare la loro attività muscolare.

Negli Stati Uniti sono ventuno gli Stati che ne fanno uso per scopo terapeutico, il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo ha sottolineato che “la marijuana può aiutare ad alleviare i dolori e a rendere più efficace il trattamento di alcuni tumori”, come ormai ampiamente dimostrato dalla scienza medica. Nel Colorado la vendita è libera in determinati coffee shop, dove si sono formate lunghe file di maggiorenni (sopra i 21 anni) che hanno la possibilità di acquistare 28 grammi ciascuno. Seguirà lo Stato di Washington ecc.

Nel mio paese, come sapete, l’Uruguay, hanno legalizzato la marijuana per sottrarre il business alla criminalità organizzata. Si possono coltivare fino a 6 piantine in casa, oppure comprarla nelle farmacia statali fino a 40 grammi al mese, dopo essersi registrati in un database.

Credo che dovrebbero legalizzare la marijuana anche in Italia, dato che vengono accettate le dipendenze più pericolose come l’alcol, le sigarette o il gioco d’azzardo; in questo modo diminuirebbe anche la delinquenza di coloro che per farsi uno spinello magari rubano o si prostituiscono.

Per esempio, nel Salento, il Sindaco Donato Metallo è disposto a offrire dei terreni del Comune per coltivare legalmente la marijuana e poter così aiutare i malati, come Maddalena Migani, 36 anni, malata di sclerosi multipla, a cui la cannabis allevia un po’ il dolore. Se non riesce a fumarla, la mette sotto la lingua, come un prodotto omeopatico, e raggiunge subito dei risultati: i dolori si attutiscono e riesce a dormire, è per lei l’unica alternativa al cortisone che non tollera. E, come lei, sono tanti i malati che potrebbero trovare un po’ di serenità in qualcosa che male non fa, se assunto con l’ausilio medico.

Io, personalmente, mi reputo fortunata, non ho mai provato nessun tipo di droghe non ho mai fumato sigarette e bevo raramente. Non credo a coloro che dicono che, frequentando persone che si drogano, sono costrette a farlo anche loro. Ne ho conosciuta di gente che faceva uso di droga, alcol ecc., ma non ho mai avuto la curiosità di provare, anzi, se oggi mi trovo in carcere è per possesso di droga. Non ho giustificazioni per questo, solo che mi sono trovata in un momento di disperazione che ti porta a fare cose che non sono nella tua natura e che la tua famiglia ha sempre condannato. Posso solo prendere atto di quello che ho fatto e cercare di rimediare pensando che non è mai troppo tardi per ricominciare e che la prima cosa è chiedere scusa a tutti quelli cui ho recato danno, in primo luogo alla mia famiglia. Ciao al prossimo articolo.

Viaggiare nelle parole

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Ciao a tutti, sono Mirna, ormai sapete chi sono, detenuta a San vittore, e oggi vorrei parlare di una signora volontaria. Ci conosciamo più o meno da circa 7 o 8 mesi. Prima ci frequentavamo poco, ma adesso lo facciamo più di frequente, si chiama Renata, è una delle tante persone che entrano, per nostra fortuna, nel carcere. Lei è venuta nella sezione femminile perché voleva scrivere un libro e raccontare le diverse storie di ognuna di noi detenute e delle altre donne che si trovano qui per loro scelta.

Un giorno Renata si presenta nella sartoria dove lavoro, insieme alla nostra presidente Luisa Della Morte che la presenta a tutte noi, le mostra il laboratorio di tessitura, le fa vedere quello che facciamo, ma si raccomanda di non disturbarci perché stiamo lavorando.  Lei si aggira un po’ sperduta ed io, che stavo alla macchina da cucire,  le dico di prendere una sedia e di sedersi vicino a me, così, tanto per farla sentire più a suo agio.

Comincio a raccontarle del lavoro a cui tengo moltissimo e di tutto quello che ho imparato di questo mestiere che, per me, è diventata una vera e propria passione. Lei mi ascolta con molta curiosità, studia tutto e tutti, poi mi chiede come passo le giornate. Le rispondo che quasi tutto il tempo lo dedico al lavoro poi, una volta la settimana, faccio un corso di giornalismo, che mi piace molto. Le suggerisco anzi di partecipare insieme a noi che non siamo proprio delle scrittrici, ma, di sicuro, ce la mettiamo tutta. Renata segue il mio suggerimento, comincia a frequentare questo corso e, senza volere, si trova “dentro”. Mi aveva detto che veniva da noi in sartoria per parlare e per ricavare delle storie per il suo libro, invece non lo ha fatto. L’ho persa di vista, perché era un momento di tanto lavoro in sartoria e a me era passata la voglia di scrivere, non mi veniva in mente proprio niente: avevo la testa vuota e davanti a me il foglio bianco. Simona, la direttrice del giornale, una persona brava, paziente e molto perspicace, un giorno, mi viene a trovare in sartoria e mi dice: “Mirna, se non te la senti di scrivere un articolo, puoi collaborare con noi facendo dei gadget, dei porta occhiali o altro, che regaleremo appena riusciremo a stampare il giornale.”. Ecco, le sue parole mi hanno fatto sentire utile di nuovo e ho ricominciato a frequentare i corsi e a scrivere aiutata in questo anche da Renata che, con la sua simpatia, mi ha convinto a non mollare.

Poi arriva il giorno della prima intervista, ci troviamo subito e ci incontriamo spesso avviando un nuovo rapporto: lei viene in sartoria e, se ho tempo, le dedico qualche ora, se no, rimandiamo; non è che io sia così importante, solo che, se devo lavorare, non smetto per fare altro; magari ci raccontiamo le “news” e ci facciamo quattro risate. Oggi è stato l’ultimo incontro della nostra intervista. Dopo, quando sono tornata in cella, una volta chiusa la sartoria, ho riflettuto su di lei. Trovo che Renata sia una donna molto intelligente e intuitiva. Con lei si può parlare di tutto e sicuramente aver viaggiato per tutto il mondo le ha regalato questa immensa ricchezza; lei dice che entrare qui è come fare un viaggio, perché siamo donne eterogenee di diversi paesi, ognuna con le sue abitudine e le sue culture.

Parlando con lei, ho capito che abbiamo tante cose in comune, anche se apparteniamo a due mondi diversi, amiamo viaggiare, lei di sicuro ha viaggiato molto più di me, comunque io continuerò a farlo. Personalmente penso che ogni paese ha la sua bellezza. Poi, tornando a noi, abbiamo avuto entrambe un grande amore e abbiamo sofferto quando lui è venuto a mancare, ma conserviamo dei bellissimi ricordi che ci fanno andare avanti, elaborare dei progetti; proprio due vite diverse con tante cose in comune. Renata dice che entrare qui la fa sentire bene, ma anche se non vuole ammetterlo, credo che ricavi la sua soddisfazione nel poter aiutare noi che siamo in carcere, che stiamo passando un brutto periodo. Io mi sento sempre di ringraziare tutti i volontari. La mia ammirazione ora va anche a queste persone che ci dedicano il loro tempo: un ringraziamento va a Simona nostra professoressa di giornalismo e ovviamente alla nostra grande Renata.

Mirna

Un luogo senza passioni

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Ciao a tutti,

sono Mirna, uruguayana, detenuta nel carcere di San Vittore da 5 anni.

Con questo articolo non voglio parlare di me bensì di una amica, anche lei sudamericana, e dell’incubo che sta vivendo, espiata la sua pena, qui nel carcere circondariale, da qualche mese e da allora “ospite” in un centro di identificazione per stranieri, non avendo documenti con sé.

Lei a San Vittore, ha imparato a lavorare il telaio. Noi abbiamo una cooperativa sartoriale dove alcune ragazze, durante il periodo di detenzione, imparano a lavorare i tessuti e a cucire. Qui, Maria ha scoperto una passione. Ha realizzato sciarpe che ha regalato al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, una sciarpa del Milan a una delle figlie di Silvio Berlusconi.

Con le sue piccole mani riusciva a fare cose bellissime.

Maria oggi sta vegetando in un posto dove non c’è nulla da fare, mai! Solo aspettare il suo “turno” per essere rimpatriata.

Siamo in contatto tramite posta e mi racconta quanto questo “centro accoglienza” sia simile a un lager. Una volta entrati si perdono diritti e dignità.

Mi racconta quanto sia sporco, dai sanitari alle docce e a loro non è data la possibilità di pulire in quanto non gli vengono lasciati oggetti per paura che le persone li possano utilizzare per farsi del male.

La notte non si dorme. Spesso le urla di chi sta male, o di chi discute tengono svegli tutti gli altri.

L’aggressività è all’ordine del giorno e nessuna guardia interviene finché non si vede “sgorgare sangue”…

La mia amica non è particolarmente bella o femminile e questo, in quell’ambiente, sembra sia un vantaggio per le proposte indecenti che si sentono fare alle ragazze considerando poi quello che succede se queste rifiutano…

A mio parere questo è un vero e proprio abuso di potere!!

Se vuoi mangiare ti devi accontentare della mensa e di quello che offre altrimenti vivi di patatine, arachidi o uova sode. Questo è l’unico vantaggio per la mia amica: lei è sempre stata in sovrappeso ma in quest’ultimo periodo sembra stia diventando “un figurino”. Ovviamente scherzo per sdrammatizzare ma in quel posto si vive veramente male.

I volontari sono pochi ma fortunatamente qualcuno c’è e si occupa dei più bisognosi. Bravi! Bravi!

Questa situazione mi preoccupa e mi meraviglia. Potrebbe capitare anche a me una volta fuori da San Vittore.

Se abbiamo sbagliato e abbiamo pagato dovremmo avere tutti un’altra opportunità oltre ad avere diritto al rispetto.

Mi dispiace molto per Maria e per tutte le sue compagne di sventura perché passano le loro giornate in posti che non dovrebbero neanche esistere.