Archivio dell'autore: Ludovica Amat

Informazioni su Ludovica Amat

Scribacchina per passione, campa risolvendo problemi di comunicazione ad aziende e persone, prediligendo chi produce alimenti e bevande.

via piranesi 10 #alfredino winter

Per andare in via Piranesi, attraverso tutte le mattine i giardinetti al centro di Piazzale Martini.
Tutti i giorni, arrivata a un certo punto, saluto Alfredino, anche se lui non c’è. Al suo posto una lapide, dalla forma di un palo, ma più grande, tagliato di sbieco, a un’ altezza che doveva essere la sua, quando, a 9 anni, è stato portato via dalla sua casa di via Sanfelice, lì dirimpetto.
Ogni mattina che passo, quel palo a quell’altezza taglia anche me, mi manca il respiro. Controllo l’aiuola, che sia in ordine, attorno alla lapide hanno piantato rose, ora sono solo rami tagliati e scuri e spinosi, ma ci sono le gemme, le ho viste, piccolissime. Quando guardo l’aiuola è come se mi sentissi osservata da una casa di via Sanfelice, quella col giardino, immagino un nonno o una nonna alla finestra, ma impalpabili. C’è scritto sulla lapide, sulla quale da qualche giorno ci sono due macchie colorate, che Alfredino Winter di 9 anni abitava in Via Sanfelice, e da lì era stato deportato ad Auschwitz e ucciso il 30 giugno 1944. Questo bambino lo ricordo tutti i giorni, il 27 gennaio non farò differenza.

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via piranesi 10 # TRA LORO

Quando arrivo in ufficio e salgo al quarto piano, su per la gola abissale con l’ascensore trasparente, è impossibile ignorare la situazione, provo sempre un po’ di imbarazzo. Ogni mattina spero sia successo qualcosa, ma la scena è sempre la stessa: muta e inesorabile accade, nel grande atrio che precede il mio corridoio.
Lui la guarda, immobile, la testa appena abbassata, non si capisce se prudente o arreso all’indifferenza di lei, c’è solo il suo abito elegante a non farlo apparire del tutto sconfitto.
Lei, troneggiante e multicolore al centro della scena, voltata sempre impercettibilmente un po’ di lato, lo ignora. Non si ha ragione di tutta questa superbia, ma forse è solo una banale questione di lignaggio. Lui, l’elefantino, proviene da una fiera di strada, lei, la poltrona, è stata concepita e decorata a mano nientemeno che da Alessandro Mendini.
L’altro giorno giravano qui un film pubblicitario, la poltrona è stata spostata per sicurezza,
l’elefantino era agitatissimo, dietro il suo vetro. Poi l’hanno rimessa a posto, ma sempre girata di là.
Una sera, quando vado via, le faccio un bello scherzo, le faccio.

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via piranesi 10 # VISTA CIELO

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Nel nuovo ufficio-acquario ho una stanza piccola, ma con dentro una porzione di cielo enorme. Così mi sono seduta di fronte al cielo, in molti mi hanno chiesto come faccio a dare le spalle al passaggio umano. Ma mica ho paura che qualcuno mi ammazzi. Il che è strano, considerato il mio variegato assortimento di paure. Qui tuttavia mi sento al sicuro, e poi guardo fuori, nuvole, stormi di uccellini che fanno le forme, un falchetto che litiga con un corvaccio, guardo anche quando non succede nulla, anzi mi imbambolo davanti a quella, come la chiama un mio amico, premessa o promessa di Infinito. Ogni tanto dentro l’Infinito ci finisce un signore, molto ben vestito, traversa la scena a testa bassa, camminando piano, forse telefonando o fumando la pipa (ogni tanto se ne sente il profumo, nel disimpegno da cui si accede alle balconate). Ogni volta che appare sobbalzo per lo spavento. Io sono lì che flirto con l’Infinito e lui passa dentro a rendere tutto relativo. Cammina lentamente senza curarsi di noi acquariani, innocente dell’effetto che produce.

via piranesi 10 # PRANZO THAI CON LIBRO D’ARTISTA

Per pranzo vado sempre a casa, dista solo un quarto d’ora a piedi, calpestare le preoccupazioni mi fa bene e commentare il telegiornale con mio figlio è istruttivo. Ma l’altro giorno avevo ricevuto in prestito un libro speciale, un libro d’artista, volevo passarci assieme più tempo possibile prima di restituirlo, così mi sono fermata a pranzo qui. Il ristorante di via piranesi 10 è sempre pieno di persone con cui mi fermerei a chiacchierare, quindi non andava bene. Sono andata al thailandese, un bar di poche pretese e ampi sorrisi di via Grasselli, ho scelto gli spaghetti di mais con le verdure, in frigo avevano la birra Ichnusa e non ho resistito. Pessima idea, per il cibo si aspetta un po’ e mentre aspettavo, la birretta è finita (nella mia pancia). Mi sono accorta tardi che il libro era una questione troppo importante, per leggerlo brilla e col rischio di renderlo al legittimo proprietario unto di cibo, così ho aperto solo la scatola che lo conteneva, guardato alcune foto che erano lì riposte in bustine trasparenti, fotografato quello che vedevo, che risaltava sulla tovaglia kitsch. Il Libro si chiama Refugée Archivio 1, è un’opera di Isabella Bordoni e sta facendo il giro del mondo, di mano in mano, in rete si trovano un po’ di notizie.
Ho richiuso la scatola e cominciato a mangiare tenendoci sopra la mano sinistra come per un giuramento (con la destra mangiavo), la signora thailandese proprietaria non smetteva di parlarmi, inutilmente. Non ho capito una parola, un po’ per la birra, un po’ per l’emozione del libro, un po’ perché parlava solo con le vocali. Gli spaghetti erano molto buoni e costano 8 euro, compreso l’acqua. Il Libro l’ho letto per bene nei tre giorni successivi durante un ritiro silenzioso in val d’aosta.

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via piranesi 10# I TORTINI DI KATHY

Quando la mia vicina del piano di sopra decide di indossare le sneakers anziché gli abituali tacchi (che credo siano di legno, considerato l’eco che provocano sulle scale) mi sveglio da sola, cioè tardi. Il mio sacro rituale del mattino va a farsi benedire e con lui la colazione dai tempi lunghi, fatta di the, pane azzimo, miele e letture. Saltare la colazione mi ha sempre immerso in uno stato di frustrazione, fino a quando ho scoperto i tortini di Kathy. Sono magici: una risonanza al gusto di latte riporta agli anni migliori, e la consistenza concreta con contrappunti di sapori fruttati riconcilia al da fare quotidiano. Li ho scoperti al ristorante La Cucina dei Frigoriferi Milanesi di via Piranesi 10, dove la mattina si può fare anche colazione e dove Kathy lavora come cameriera. Ho tentato di estorcerle la ricetta, ma niente da fare, tuttavia ho scoperto alcuni ingredienti insostituibili: la loro origine (San Salvador, dove si chiamano dulce de guimeo), il racconto che Kathy ne ha fatto al suo capo (lo chef Marco Frontoni), la rivisitazione italiana dello chef e il sogno di Kathy nascosto nei tortini: aprire un giorno una pasticceria tutta sua. Di cui sarò affiatatissima cliente. Intanto, se vi alzate tardi, sapete dove recuperare le forze e la gioia.

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via piranesi 10 # le rose di via lavagna

Prudentemente, prima delle grandi piogge, sono andata a fotografare i fiori di via Lavagna, una stradina che collega viale Corsica a via Piranesi. Casette a un piano e giardini grandi come balconi offrono ai passanti la vista di rose di varietà diverse, splendide anche a novembre. Mentre immortalavo una rosa sfrontatamente affacciata sulla via, ho notato che le faceva da sfondo il lato nord, quello coi vetri rossi, dell’edificio dove ho lo studio in via Piranesi 10.
Ho pensato alla fortuna di Elisabetta, che dal suo ufficio gode la vista di una via così poetica.
E immagino non sia una coincidenza il fatto che se dovessi cambiar nome a Elisabetta (ho ancora questa fissa di cambiare il nome a tutti) la chiamerei Flora. Flora Saigòn. Flora Saigòn l’altro giorno conduceva una delegazione di orientali su e giù per gli uffici-acquario, a un certo punto ho sentito passare Barbara di corsa che diceva: “Ci sono sette cinesi nel montacarichi!” Non sono riuscita a capire se ne fosse sorpresa, o indignata, o divertita, o se fosse una semplice constatazione.

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via piranesi 10 #IL PASSANTE FERROVIARIO

L’altro giorno ho dovuto correre alla presentazione di “Adagio Urbano”, un libro ottimista.
Per raggiungere Piazza Cairoli da via Piranesi in un quarto d’ora avevo un’unica soluzione: il Passante Ferroviario, fermata Porta Vittoria. Nella vita bisogna provare tutto, quello era il giorno del Passante. E’ buio, tetro, nessuno gli vuole bene, neppure gli edicolanti che si guardano bene dall’aprire un’attività in quel luogo scontroso. Per comprare i biglietti ci sono solo le macchinette, con persone davanti che le esortano inutilmente a gran voce e poi le prendono a pugni. Non c’è segnaletica e il sospetto che si possa salire a Porta Vittoria e scendere per distrazione a Saronno attanaglia. Però c’è un uomo della sicurezza, straniero, che risponde a tutte le domande, armato fino ai denti. Conosce a memoria tutte le tratte. Una volta al binario, quando il treno arriva frena in modo da farti capire che cosa intendesse Matteo quando riferiva dello “stridore di denti”. Il Passante però è onesto, te lo dice con la vetrofania appiccicata sulla porta scorrevole che è li per mangiarti con la sua grande bocca blu, tu è meglio se scappi. Ho trovato originale anche la zona ristoro, tra virgolette. Alla presentazione sono arrivata puntuale.

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lucertola

Nella stanza accanto alla mia, quella dove sta l’uomo grandissimo, ci sono anche due ragazze, una della mia età e l’altra più piccola. La piccola quasi tutti i giorni mi regala una cosa. Ok, sono avanzi di magazzino, di mostre, di fiere, ma sono belli, e lei ogni volta fa quella faccia che si fa quando si dà un regalo, non riesco a spiegarmi, ma è una bella faccia, con gli occhioni. Oltretutto l’altro giorno mi ha regalato marmellate e the, che li avevo finiti. All’altra ragazza, quella della mia età, le è rimasta la voce che si ha al liceo, anche i ricciolini lunghi, spesso si siede sopra un polpaccio (suo), come me. Qualche giorno fa la ragazza piccola ha portato suo figlio, gli ha sistemato per terra dei cartoni che prima erano uno scatolone, i colori e alcuni giochi. Il bambino è quasi sempre stato al pc di sua mamma e tutti gli adulti che si affacciavano alla stanza stavano sul ciglio della porta di vetro per un po’, aggrappati con la mano per impedirsi di lanciare una scarpa di qua e una di là e mettersi per terra a disegnare o a tirare le macchinine contro i muri. Tra l’altro l’uomo grandissimo, che ha la scrivania di fronte, ha scritto un saggio proprio sulla gente che non vuole crescere, in copertina c’è la sagoma di peter pan. Il primo giorno che sono venuta qui sul mio tavolo è passata una lucertolina, aveva il cuore che batteva fortissimo.

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intro

Il mio nuovo studio è una stanza in un imponente edificio che da fuori, anzi da lontano, ci arrivo a piedi, sembra un monolite. Ogni volta penso: urca! io sto lì. E’ anche tutto nero, ma dentro è molto aereo. Anzi acquatico. Le stanze sono altissimi parallelepipedi con pareti di vetro. La prima volta mi sembrava un enorme contenitore di acquari. Non per niente lì vicino ci facevano il ghiaccio. come farò – mi chiedevo considerando tutta quella trasparenza – a non fare quelle cose che faccio abitualmente in studio da sola, come togliermi le scarpe, sedermi per terra per una telefonata difficile, abbracciare il tavolo con braccia e faccia quando sono contenta? Ma soprattutto tutti questi acquari mi fanno venire voglia di percorrere i corridoi a crawl o anche a dorso, mi devo trattenere. Soprattutto mi devo trattenere dal fare scherzi ai miei vicini di stanza, quando vado o torno dal bagno (la mattina ci vado sempre quindici volte perché bevo troppo the) ogni volta ho un’ispirazione diversa. All’andata mi viene da fare la pattella sul vetro, appiccicatissima, al ritorno se incrociassi il loro sguardo farei la trasformazione in pesce palla, facendomi gonfiare la faccia come per un’esplosione e strabuzzando gli occhi. Loro mi sono molto simpatici, ma è meglio se mi trattengo, magari poi mi abituo.

Il mio vicino di stanza è un uomo grandissimo, sarà alto 6 o 7 metri, ma lavora a un portatile piccolo piccolo, così è sempre raccolto attorno a quel cosetto, non so come non gli venga mal di schiena. Una volta aveva le bretelle. Lui, non il portatile.

 

Il mistero del tempo

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Quando interrogo il mistero del tempo non trovo mai risposte

Sono sempre in ritardo o troppo in anticipo? Chi ha deciso cosa?

Perché siamo diventati così inutilmente competitivi nei confronti del tempo?

Per consolarmi rileggo questo brano di Qohelet, un saggio vissuto verso la fine del III secolo a.C.

Solo in questo moto oscillatorio, come su un’altalena, trovo risposte, e pace

C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace (Qo 3,2-8).

Tolleranza, terra di mezzo

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È una parola percepita diffusamente come positiva, ma che trovo soprattutto ambivalente, perché contiene sia una piccola sconfitta che una luminosa verità.

La tolleranza riconosce implicitamente che un mondo a nostra misura, e cioè perfetto, non esista e per sopravvivere a questa imperfezione ci suggerisce di colmare, traversandola, la distanza tra noi e le nostre necessità, e gli altri, con le loro necessità.

Tolleranza è la terra di mezzo tra noi e gli altri.

Un campo da non considerare minato di insidie, da traversare solo in caso di necessità, correndo con gli occhi chiusi, magari anche urlando.

Piuttosto un bosco di luce e ombra, dove conoscere il diverso da sé; l’unico luogo al mondo dove ancora è possibile sorprendersi, imparare, scambiare, crescere.

La tolleranza è una delle strade possibili per la felicità, e la comprensione del mondo.

Buoni propositi: le persone

Scrivere qualcosa per Capodanno comporta uno sforzo anti retorico peggio ancora che per il Natale. So che fallirò. Servirebbe una sfilza di buoni propositi, ma preferisco uno sguardo verso l’anno trascorso. Ne ho un’immagine un po’ come quella del parco Sempione oggi, poco colore, fiera resistenza degli enormi e profumati sempreverdi, l’acqua plumbea del laghetto, il sole che carezza le capoccette degli alberi più alti, illuminandoli. Un’immagine a tratti desolante, o infida, ma solo in apparenza. Per smentirla basta tenersi lontani dall’acqua fredda e avvicinarsi ai cespugli, che nascondono strette strette centinaia di gemme. In questa visione mista, tra umido spavento e luminose speranze, si muovono tantissime persone, che mi paiono provenienti da tutto il pianeta. Tutti allegri. Due bambine che si dicono un segreto e si abbracciano, famiglie che camminano dondolando, ragazzi e ragazze, non necessariamente in questo ordine di reciprocità, che si baciano e ridono, proprietari di cani che corrono e chiamano, e molte altre figure. Ecco, mi pare un po’ questo il mio anno trascorso. Anno in cui preoccupazioni e dolori si sono cacciati improvvisamente come schegge nel fianco (è da allora che cammino storta?) e poi la scheggia è stata tolta, la ferita curata e poi zacchete un’altra. Anno dell’ennesimo trasloco, per una casa piccina picciò che però ci ha accolto a braccia aperte, e fa nulla che non ci sta la batteria se hai una vicina che ti porta una fetta di torta e una piantina di erica. Un’immagine di un anno solo apparentemente desolante e minacciosa, ma piena di promesse, dove sono state le persone a fare la differenza. Tutte quelle che, già nel mio cuore, nuove, o ritrovate, facendo un pezzo di strada con me o sorridendomi tutti i giorni, ascoltandomi o stringendomi per le spalle, ridendo a crepapelle o cercando la soluzione a un problema, litigando e facendo pace nelle ore successive, aiutandomi materialmente o con consigli efficaci, o, perfino, ricomparendo la notte di Natale, spaccandomi il cuore, da un luogo lontano lontano (ehi, Vincio, sei tu!), hanno reso tutto il quadro pieno di significato, degno di essere vissuto e, soprattutto, ricordato.

Un numero di persone impressionante, rispetto ai pochi, pochissimi, persi per strada.

Ecco, tutte queste persone costituiscono la mia dote di forza e allegria per tuffarmi nel nuovo anno, perché l’unico grande protagonista dell’anno che viene saremo noi: le persone.

La festa dell’Avvento

Natale è la festa dell’avvento. Ho preso troppo alla lettera la questione, e per me il Natale è diventato la festa dell’aspettativa. Mi aspetto che nevichi, che in città ci sia silenzio, che quando c’è buio ci siano automaticamente tutte le lucine accese, che la neve non diventi nera, che la gente indossi dei maglioni di lana grossa con disegni di alci, e che stia vicina, spalla a spalla. Mi aspetto che le macchine restino parcheggiate e coperte di neve, così non le riconosci, e che il collegamento di pc e telefonini scompaia misteriosamente per una settimana. Per Natale mi aspetto di cucinare ai miei fratelli cose che neanche se le immaginano, che le mie nipoti salgano su una sedia e dicano la poesia, che mia madre, almeno per questa volta, non faccia il timballo di maccheroni.  Mi aspetto anche che mi venga un’idea pazzesca per un regalo a mio figlio, che poi mi dirà: “ma-ma, ma mamma, è proprio quello che ho sempre sognato”.

Per Natale mi aspetto che un giorno, in un certo punto di Milano, si accalchi tanta gente e si crei un silenzio; mi aspetto che staremmo tutti lì, spalla a spalla, a guardare una strana coppia un po’ spaesata, con in braccio un neonato coi ricciolini piccolissimi. A tutti verrebbe in mente che è Gesù, ma nessuno lo direbbe, perché i milanesi sono un po’ così.

Comunque non è sbagliato avere delle aspettative a Natale. Che è la festa dell’Avvento.

Fare la spesa

Sono una fan dei gruppi d’acquisto solidale, della verdura bio consegnata a casa senza sapere cosa ci sia nella cassetta, delle gite fuori porta per trovare piccoli e onesti produttori da cui acquistare formaggi e vini, per non parlare del pane di Eugenio Pol e dei presidi di Coldiretti al consorzio agrario o alla cascina cuccagna. Sono felice che tutti vadano lì. Io invece vado al Supermercato, una volta a settimana, oltre a qualche sporadico rinforzino. Quando entro, col mio bel carrello, mi sento sempre quasi un po’ felice. Al Super posso chiedere al vecchietto: “secondo lei, questi fagiolini, pesano mezzo chilo?” Il vecchietto ci becca sempre, se manca qualcosa me ne porta una manciata alla bilancia. Al Super posso consultare indisturbata tutte le confezioni di prosciutto crudo fino a quando trovo quella che è senza dubbio la migliore, posso chiedere al banco del pesce quanto ci vuole per fare il branzino al sale e non comprarlo, fare una telefonata di venti minuti col gomito appoggiato alla mensola dei crackers senza che nessuno se la prenda. Al Super posso giocare a cassiera sparando ai codici a barre con la pistola astro spaziale, ma soprattutto posso lanciarmi in corsa nelle corsie (si chiamano apposta) col carrello, e poi frenarlo strisciando i piedi a sciarpetta.

Dicono che al Super si trovi fidanzato, io tenderei a escluderlo.

Onore alle lacrime!

Crisi e sorrisi, si diceva. Bene, scriverò di lacrime. Tanto mi sono piaciute quelle di Barack Obama, tirate via, ma senza fretta, con quel ditino lungo lungo. Ha mani giacomettiane Barack. Mi sono  piaciute perché  hanno potenzialmente educato, con un’immagine, una popolazione (giovane) regalandole un attimo di integra nudità. Ora risulterà  normale per un uomo piangere in pubblico, e non necessariamente perché stia vivendo un dramma, ma magari perché è molto emozionato e, come il Presidente, anche un po’ stanchino (cit.). Per una singolare coincidenza, asciugate le lacrime di Obama ho ripreso a leggere l’ultimo libro di Pennac “Storia di un corpo”, e questo ho trovato a pagina 102: “In effetti stamattina ho proprio versato tutte le lacrime che avevo in corpo. Sarebbe più giusto dire che il corpo ha versato tutte le lacrime accumulate dalla mente nel corso di quest’inverosimile carneficina. La quantità di sé che viene eliminata con le lacrime! Piangendo si fa molta più acqua che pisciando, ci si pulisce infinitamente meglio che tuffandosi nel lago più puro, si posa il fardello dello spirito sul marciapiede del binario d’arrivo. Una volta che l’anima si è liquefatta, si può celebrare il ricongiungimento con il corpo. Stanotte il mio dormirà bene. Ho pianto di sollievo, credo. E’ finita. In verità lo era da qualche mese, ma mi ci è voluta questa cerimonia per chiudere l’episodio. Finito. Lui ha decorato questo: la fine della mia resistenza. Onore alle lacrime!” Onore alle lacrime anche alla presentazione del libro della poetica Lisa Corva “Ultimamente mi sveglio felice”, le sue (moltissime) fans in rete ridono di quanto hanno pianto alle letture dei brani! A me tutte queste lacrime mi hanno messo un gran buonumore, sento le relazioni meno filtrate, meno prudenti, io ci credo che il meglio debba ancora venire.

Crisi e sorrisi

Dopo averci pensato in silenzio per qualche minuto, guardandomi fisso nell’occhio destro, ma potrei dire fino al cervelletto, è così che Lina ha deciso di battezzare la sezione del suo blog dove scriverò d’ora in poi. Crisi e sorrisi. Un titolo che pare mi sia guadagnata sul campo. A mia nonna, che detestava le contaminazioni (il riso con il riso, i piselli con i piselli) non sarebbe piaciuto, a me invece piace partire da un ossimoro, che coincide col mio personale programma salvavita.

Non è che ieri, quando “la banca” mi ha comunicato che mi ridurrà il fido, mi sia sbellicata dal ridere, questo no. E neppure si può dire che soffra di una semiparesi da sorriso seriale. Sta di fatto che quando comincio a scrivere di guai i drammi si trasformano in farsa, per motivi a me ignoti tutto diventa improvvisamente relativo, quasi sempre comico, certamente più leggero.

Balle. In realtà Lina non sapeva come dirmi che per la rubrica Ragazze da Marito sono davvero  troppo giovane.

 

Io nonna

Non vedo l’ora di diventare nonna, conoscere di persona una miniatura di mio figlio, arricchita di nuovi elementi in modo imprevedibile. Ogni tanto ci penso: una bambina con tutti quei capelli spettinati, però rossi; con gli occhi di un colore nuovo, ma con il sopracciglio che si aggrotta insensibilmente quando non capisce cosa sto dicendo, e col vizio di tenere le dita dei piedi sempre rimboccate.
Povera bambina, non farei che interrogarla su tutte le Grandi Domande, lei mi risponderebbe di slancio, inventando di sana pianta, tanto per farmi star zitta. Poi mi accompagnerebbe ai giardinetti dove potrei incontrarmi con altri nonni. Nei giardinetti mi lascerebbe in una zona protetta dove potrei socializzare con i miei c&œlig;tanei, manipolare la creta e fare merenda grazie allo sponsor. Fuori dal recinto i cani scorazzerebbero liberi e mia nipote, con gli altri bambini, starebbero buoni buoni sulle panchine a lavorare sull’ iPad27. Poi tutti al supermercato, dove gli scaffali sarebbero bassi perché finalmente li avranno fatti all’altezza dei responsabili d’acquisto. A casa cucinerei io, i bambini vogliono sempre le stesse cose, lei per i primi anni mi chiederebbe sempre e solo la cipolla caramellata di Davide Oldani. Dopo il pisolino ci si potrebbe bere un caffè immaginario nelle tazzine della bambola e poi partire per viaggi straordinari nelle mie scatole delle scarpe, quelle piene di fotografie.
Mia nipote, coi soldi che metterebbe via per farmi da nonna sitter, si comprerebbe un albero di ciliegie e lo pianterebbe di fronte a casa, così lei e io, fra le altre cose, ogni anno si aspetterebbe la primavera con trepidazione.
 

Milano Fashion Week: è nata una stella

altro che blogger, oggi ho conosciuto la vera outsider del fashion system: mia madre. questa la cronaca concitata, un liveblogging senza blog (c'è qualcosa di più avanti?) di qualche ora fa a milano, dove la moda si è presa la strada. ho scritto presa. ecco, bisogna leggere in fretta: "C'era uno coi pantaloni grigi e neri alla caviglia, giacca un po' blusàn…
, grigia e nera, a pois, poi aveva una fascia, una cinta, non sulla vita, sui fianchi, di plastica trasparente (la cintura n.d.r.), poi aveva una maschera, una maschera da topo, di plastica, nooon per andare al mare, forse non era una maschera. (pausa) comunque lui sembrava un orientale, era piccolo di statura. poi c'era una con tacco 24. accidenti quella non l'ho vista bene, che aveva, perchè l'ho vista da dietro, che aveva dei pantaloni sotto, un accenno di pantaloni e sopra un un un una tunica, però stretta, e poi aveva come un collare, forse. Poi ce n'era una che sembrava una domestica, che aveva una gonna bianca spaccata, con lo spacco sopra, una camicetta, una bluuuuus celeste, ma proprio brùtta. un miliardo di fotografi, tutti stranieri, moltissimi giapponesi. poi c'era questa teoria di mercedes nere col vetro oscurato da dove scendevano persone. la wintour, quella l'ho riconosciuta. e poi c'erano i milanesi, veri, affacciati alla finestra, ma come sono i milanesi: senza commenti. poi altri tacchi 24, con i calzoncini con queste gambe grosssse, ciccione, con sopra una camicia, i portinai erano molto incuriositi. questa cosa che hanno tutti il tacco 24 mi fa molta impressione".