Zero History di William Gibson

di

Questo libro (Fanucci 2012) non potrà essere capito a fondo da chi non se la cava a distinguere Shangai Tang da Pearl [River] Market o Eugenio Vazzano e riesce a comperare la roba più chic pagando il meno possibile in tutti e tre i posti. Ma comunque leggetelo lo stesso perché non solo vi divertirete, ma imparerete un sacco di cose utili, soprattutto in tempo di crisi quando siamo tornati ai tempi della guerra e si fanno ottime minestre (pancotto) e buoni dolci (charlotte) con il pane secco, senza contare il pan grattato che può sostituire vari condimenti in molte ricette.

Con il titolo allusivo di Zero History, William Gibson  il geniale cantore del mondo delle piattaforme digitali  e inventore del termine cyberpunk (Burning Chrome (1982)  Neuromancer (1984), (Count Zero (1986), Mona Lisa Overdrive (1988) ) prosegue la Blue Ant trilogy  iniziata con Pattern recognition  (2003, in italiano L’accademia dei sogni, 2005 vedi la mia recensione sul  Domenicale in quell’anno) continuata con  Spook Country (2007) che combina il mondo creativo e maniacale per i dettagli, della moda, della pubblicità,dei designers e delle bands musicali, con il mondo maniacale delle grandi zaibatzu mondiali, con le loro limo blindate, gli eserciti privati della security e il mondo maniacale dei servizi segreti, dello spionaggio elettronico e del commercio delle armi, tutti legati dalle prospettive maniacali di fare quantità maniacali di denaro. La storia gira attorno alla ricerca (che si svolge come opportunamente deve avvenire saltabeccando da Sidney, a Parigi a Firenze, a Londra  e in ogni dove, purché in questo dove ci si trovi sempre o in ristoranti chic come Les Editeurs di Parigi o il misterioso Hotel privè di Londra chiamato Cabinet) di una misteriosa quanto raffinata disegnatrice di moda che produce capi introvabili di squisita fattura, in piccoli laboratori perduti nello sprawl. Ben presto la storia si complica perché Bigend, il boss fisicamente e politicamente sovrumano, della Blue Ant,  agenzia tuttofare che si occupa dell’affare, inciampa in un traffico di armi mondiale, mentre sta cercando a sua volta di ottenere una commessa militare per uniformi da squadre speciali firmate da famosi designers. Esiste anche una moda maniacale dei corpi speciali che contribuisce alla mitopoiesi che li riguarda. Se credete che la griffe sia troppo frivola per le uniformi militari vi sbagliate di grosso, non avete mai visto un generale degli Ussari, o nella versione UPIM dei generali messicani un Gheddafi qualsiasi. Posso garantire che sono tanti soldi. Un mio collega americano (non sto a mettere nomi) ha sposato la figlia di un ricco signore ebreo trasferitosi da New York a Los Angeles. A vederlo non gli davi quattro soldi, una sera ci ha invitato a mangiare da Chasen’s e senza riserve con grande scandalo della figlia mi chiama Dago (come Whop, Guido etc , Dago è per un vecchio ebreo newyorkese il modo giusto di chiamare un italiano, esattamente come loro li chiamavano Hymies o Bagel Dog e via slurrando). Quel signore lì ha inventato le Eisenhower Jackets, quei giubbini impermeabili con lo zip e l’elastico alla cintura che portavano i soldati americani durante la II Guerra mondiale e che Ike portava un po’ per snobbismo un po’ per sincero spirito egualitario. Fatevi un po’ voi i conti quanti soldini ha portato a casa il signore che aveva il brevetto di quel giubbino e difatti si è trasferito a Los Angeles, ha comperato la casa di George Raft su nel Canyon di Hollywood e ha continuato a fare affari in Giappone (non facile) fino ai suoi ultimi giorni. Gibson non esagera.

 

 

Il racconto è seguito per così dire in soggettivo da due personaggi. Uno, in realtà il vero narratore, è un maniaco depressivo, in fase di ricostruzione psichica, seguita a distanza da un costoso e misterioso laboratorio a Basilea, ingaggiato dal maniacale Bigend per le sue qualità eccezionalmente maniacali di cogliere i dettagli (un carryover da Pattern Recognition), L’altra storia portante è quella, immancabile, di un amore romantico e disperato tra la narrante e il solito Superman pensionato delle Special Op della CIA, un po’ ingrigito ma ancora supercool e superfigo, ma non aggiungo altro per non svelare troppo di una trama che riserva una sorpresa a ogni capitolo, se non a ogni pagina. Leggetelo, ma se non siete anche voi dei nerds maniacali capaci di sapere su che macchina girava il Pentium, oppure dei maniacali gustatori di vestiario capaci di distinguere, dalle cuciture, il Gronchi Rosa della partita farlocca di jeans di seta di Takashimaya, dalla sua imitazione fatta a Shangai o a Taiwan, e venduta a Shinjuku, non vi divertirete fino in fondo, ma potrete imparare un sacco di cose interessanti e di irrelevant trivia, aggirandovi con il geniale Gibson, vero radar per i trends della contemporaneità, nel sottomondo dei negozietti tra Noho, Soho (quello originale, non quello South of Houston, attenti alla pronuncia touristspotter) e  le bancarelle di Akihabara, dove una popolazione maniacale ricicla il floatsam e il jetsam materiale e umano di una maniacale economia mondiale del consumo, mescolando lowlife e high tech: il brand (è proprio il caso di dirlo) di questo autore. Leggetelo, ma prima date una occhiata ai cataloghi online e a eBay.

Un pensiero su “Zero History di William Gibson

  1. manu52

    L’aurore dimentica di specificare che si tratta di un romanzo di fantascienza. Di primo acchito sembrerebbe addirittura trattarsi di un manuale di consigli per gli acquisti in tempo di crisi alimentare e vestimentaria. Personalmente preferisco attenermi a modelli più tradizionale del genere. Qui si respira una sorta di dipendenza tossica che inquieta.

    Replica

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *