Primo Premio Concorso Martinotti: Il bosco in città

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Cominciamo oggi a pubblicare i lavori dei tre vincitori del Premio Martinotti. Il bosco in città è stato realizzato da Giulia Carrarini Davide Gangale Carlo Marsilli Giorgia Wizemann, studenti del Master di giornalismo Walter Tobagi dell’Università di Milano.

Lo sviluppo non deve andare contro la felicità, deve essere a favore della felicità umana, dell’amore sulla terra, delle relazioni umane, della cura dei figli, dell’avere amici, dell’avere l’indispensabile. Proprio perché questo è il tesoro più importante che abbiamo, quando lottiamo per l’ambiente, il primo elemento dell’ambiente si chiama: la felicità umana.

(dal discorso del Presidente dell’Uruguay José Mujica alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile Rio+20, 21 giugno 2012)

Noi vediamo la città fisica e non quella sociale. Ma la città fisica è il prodotto della città sociale, senza la quale non esisterebbe.

(Guido Martinotti)

Il bosco in città

«Lavorando qua la depressione è svanita, perché mi dedico a quello che faccio e non ai brutti pensieri. Per me è l’ideale, dovrebbe esserlo anche per gli altri». Ogni mattina Stefano si prepara un caffè ed esce di casa. A lavorare, lui, ci va a piedi. E la giornata la passa all’aria aperta.

Stefano è un utente dei servizi di salute mentale dell’ospedale Niguarda. Dopo la nascita dei suoi figli, ha sofferto di una forte depressione: per dieci anni si è rintanato in una stanza buia, rifiutando ogni forma di contatto con il mondo esterno. Grazie all’insistenza dei suoi cari, alla fine ha accettato di andare in terapia. Ora coltiva la terra e semina zucchine e pomodori.

Stefano non vive in campagna, ma a Milano. Ad Affori, per la precisione, periferia nord della città. Gli orti di cui si prende cura sono quelli del Giardino degli aromi, un’associazione nata nel 2003 negli spazi dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, con lo scopo di reinserire nella società persone con problemi mentali. Un’organizzazione che ha scelto gli spazi verdi come unica medicina per i propri utenti. Perché «il recupero di un rapporto diretto con il mondo naturale urbano aiuta a ritrovare un equilibrio di pensiero e un ritmo biologico più sereno». La medesima filosofia è alla base delle attività delle altre 13 associazioni che operano nei padiglioni dell’ex manicomio.

È nel decennio a cavallo tra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso che prende forma l’area del Paolo Pini. Tre ettari di verde, distanti dalla Milano urbanizzata e chiusi al mondo esterno da una cinta di mura: una vera e propria cittadella nella città. Una scelta – quella di tenere i “matti” isolati dalle “persone normali” – in linea con i pregiudizi e le credenze del tempo, avvalorate anche da una scienza medica che faceva della reclusione il suo primo precetto. L’attività del Pini prosegue a pieno ritmo fino agli anni ’80, quando la legge Basaglia la interrompe gradualmente. Nel 1986 la Regione Lombardia approva un piano di riconversione della struttura, completato due anni dopo: l’ex nosocomio è trasformato in polo psichiatrico aperto. Intanto Affori è cresciuta, da sobborgo industriale circondato da campi a quartiere periferico ma vivace.

L’eredità medico-terapeutica del Paolo Pini passa nelle mani dell’ospedale Niguarda. Ma dei pazienti iniziano a prendersi cura anche alcune associazioni, che negli spazi dell’ospedale proseguono una sua antica attività: l’agroterapia. Già all’epoca del manicomio, i malati erano impegnati nella coltivazione della terra: un’occupazione che permetteva loro di passare il tempo e ritrovare il contatto con la natura. Ogni giorno i degenti erano accompagnati da infermieri e contadini al di là del muro di cinta: proprio lì si estendevano sette ettari coltivati a grano. Fino agli anni ’70, quando l’area venne trasformata in un pioppeto. Da qui il nome Parco Pop, con cui quei sette ettari sono conosciuti ancora oggi. I pioppi, però, non ci sono più: alcuni anni fa l’area è stata disboscata e abbandonata a sé stessa. Ma la natura è stata più forte: lo spazio si è spontaneamente rinaturalizzato, dando vita così a un bosco radura.

Tutto questo – edifici, terreni, campi – è sempre stato proprietà della Provincia di Milano. E le cose non sono cambiate con la chiusura del nosocomio. Se per anni la presenza delle associazioni, con tutte le loro attività, è stata accolta e incentivata dall’amministrazione, nell’ottobre 2012 il nuovo piano di governo del territorio mette in discussione la natura dello spazio. L’ente intende vendere l’intera area del Parco Pop a privati con lo scopo di «soddisfare il bisogno abitativo locale riferito alle fasce più deboli della popolazione». In altri termini, costruire un complesso residenziale destinato all’housing sociale. Le associazioni non ci stanno: «soltanto il 10 per cento delle abitazioni avrà in realtà questa destinazione», denunciano. E il cemento prenderà il posto di uno dei polmoni verdi della città: per la Provincia, una distesa senza più alcuna funzione; per le associazioni (e non solo), un luogo da preservare per la sua storia e per il suo valore, non soltanto naturalistico ma soprattutto sociale.

«Questo non è un posto vuoto». Sara Costello, presidente del Giardino degli aromi, ha dato inizio a una battaglia che ha messo insieme abitanti del quartiere, utenti dell’ex Pini e frequentatori del parco. Una battaglia che, nella sua fase iniziale, ha usato l’arma più semplice e spontanea quando quello da difendere è un bene comune: la raccolta delle firme. Dal parroco al giornalaio, dai commercianti ai pendolari, in nove mesi 23 mila persone hanno sottoscritto l’appello lanciato da Seminatori di urbanità, un comitato costituitosi per l’occasione.

Accanto alla gente comune, si sono uniti a questa battaglia anche molti professionisti: urbanisti, agronomi e architetti pronti a difendere con tenacia una realtà unica sotto molteplici punti di vista. Francesca Neonato, agronoma specializzata in architettura del paesaggio e nella progettazione di giardini terapeutici, ha seguito la vicenda da vicino e ne ha fatto un caso di studio: «La cosa importante che sta anche alla base della mia ricerca è la presenza di una comunità che ha fatto rete. E che lo ha fatto grazie all’esistenza di una serie di attività dal forte potere aggregativo: presupposto inalienabile di qualsiasi iniziativa di successo». Il contributo dell’esperta si è tradotto nella formulazione di ragioni oggettive riguardo alla salvaguardia dello spazio: «Ho fatto capire ai Seminatori di urbanità che per contrastare il progetto della Provincia servivano motivazioni che andassero oltre l’attaccamento affettivo all’area. Abbiamo iniziato a ragionare come i signori dell’economia e abbiamo dato un valore economico a questo patrimonio naturalistico».

817 alberi di 40 specie diverse e 23 tipi di uccelli: sono questi i numeri del doppio censimento – l’uno naturalistico, l’altro faunistico – del Parco Pop, un raro esempio di biodiversità in città. La mappatura non sarebbe stata possibile senza il contributo di numerosi volontari: tante persone che, ancora una volta, hanno messo insieme le loro forze per difendere un angolo prezioso del proprio quartiere. I dati raccolti sono serviti per dimostrare che l’area ha anche un prezzo: più di 4 milioni di euro, tra valore ornamentale, valutazione dei servizi ecosistemici, quantificazione della massa legnosa e dell’anidride carbonica.

Il 3 giugno 2013 i Seminatori di urbanità hanno consegnato al Comune di Milano le 23mila firme contro il progetto edilizio della Provincia, mentre l’Assessorato all’Urbanistica presentava al ministero dei Beni culturali la richiesta di vincolo paesaggistico sull’area. L’iter è ancora in corso, ma la comunità è fiduciosa: le fondamenta dell’esperienza di socialità che si è creata intorno al Parco Pop sono più solide di qualsiasi palazzina. «Di giardini condominiali, a Milano, ne abbiamo tanti, forse anche troppi», ricorda Neonato. «Di Parco Pop ne abbiamo uno solo».

Giulia Carrarini Davide Gangale Carlo Marsilli Giorgia Wizemann 

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